LA STORIA LEGGENDARIA DELLA GROTTA DEL CIABATTINO

COME SUI LESSINI OCCIDENTALI

“EL COALO DE LA SIGNAPOLA”

CAMBIO’ NOME PER DIVENTARE

LA CAVERNA O GROTTA DEL CIABATTINO


L’enigma viene svelato da un racconto che ha per protagonisti un conte, sua moglie Adele, 

il fratello calzolaio, il bambino, una caverna e l’abisso della Preta

«Prima l'éra ciamà el Coalo de la Signàpola e dopo ... la caverna del Ciabatino ». Dove «signàpo­la» sta per pipistrello e «Ciabattino» per quella grotta che si trova a qualche centinaio di metri a sud-ovest dell' abisso della Preta che si apre a 1475 metri s.l.m. sui monti Lessini occidentali nelle vici­nanze della cima del Corno d'Aquilio. Abisso ritor­nato recentemente agli onori della cronaca locale e nazionale per l'O.C.A., «Operazione Corno d'Aquilio », che ha visti impegnati diversi gruppi speleologici per una radicale pulizia dei rifiuti abbandonati a diverse profondità in precedenti spe­dizioni a partire dal 1925; «rifiuti» con alcuni dei quali è stata allestita una mostra itinerante, tanto sono significativi e rievocativi di una speleologia pionieristica. 

Ma perché e quando è avvenuto il cambiamento del nome da « Coalo  de la Signàpola» a « Caverna o Grotta del Ciabattino », più comunemente cono­sciuto dai mandriani come «el Coal dei Savatini »? (da « savata », ciabatta). La risposta a questi interrogativi ci viene forni­ta da una storia-leggenda raccontataci da Gioac­chino Benetti, ora defunto, che abitava a Piazzo, una località nei pressi di Càvalo in quel di Fu­mane. 

Fra le tante ragazze di Verona - esordisce l'an­ziano Benetti - ve n'era una di particolare bel­lezza. Di modesta famiglia e orfana di padre, aveva un fratello che faceva il calzolaio. Un conte, di cui fornisce anche il cognome, se ne invaghì perduta­mente e cominciò a farle una corte spietata. Dopo averla frequentata per un po' di tempo, la chiese in sposa. 

I suoi (mamma e fratello) cercarono con ogni mezzo di dissuaderla dal compiere quel passo. Sape­vano infatti dei trascorsi del conte, del resto molto conosciuto in città. Le facevano presente che era uno scapestrato, un donnaiolo. E lei di rimando: «A vostro dispeto el togo lo stesso ». E così avvenne. Si sposarono e vissero felici e contenti per un po' di tempo. Fino a quando, cioè, lui non conobbe una bella marchesina di cui si innamorà altrettanto perdutamente. Avrebbe voluto convolare a nozze con questa sua nuova conquista, ma c'era il precedente matrimonio e la moglie ad ostacolare il suo «infame» progetto. Nel conte cominciò a farsi strada l'idea di eliminarla (<< de coparla»). Ci provò tre, quattro volte, senza riuscire nel suo intento 

Il fratello di Adele, così si chiamava la sventurata signora, era amico di un servo del conte e così venne a sapere dell'odio che l'uomo nutriva nei con· fronti di sua sorella e dei tentativi che aveva fatto per « torla so da le spese» (ucciderla). 

E qui incominciamo ad entrare nel vivo della storia. Bisogna sapere che questo conte era proprieta· rio delle malghe: Pialdabassa, Preta - dove si trova « el Coal de la Signàpola» e l'abisso della Preta, appunto -, e un'altra montagna, di cui il nostro informatore non conosce o non ricorda il nome. Po· trebbe trattarsi della Malga Pietà, che un tempo si chiamava Mèmola ed il cui nome è in qualche modo legato all'Istituto cittadino degli Esposti al quale, almeno fino al 1859, affluivano i proventi derivanti dagli affitti di questa malga, come risulta dalla quietanza, che viene qui riprodotta, messaci gentilmente

a disposizione da Angelo Tommasi (BatistòljJ di Fosse. (Un vivo ringraziamento al signor Tommasi anche per averci segnalato la persona depositaria della storia che state leggendo ed alla figlia Paola per averci accompagnato dalla persona stessa). I proventi in parola sembra abbiano a che fare con un figlio illegittimo nato dalla relazione di una ragazza del popolo con un nobil uomo il quale, non potendo e non volendo riparare con il matrimonio, si sarebbe impegnato a mantenere il rampollo presso l'Istituto con gli  affitti della Malga Mèmola che, probabil­mente da allora, incominciò a chiamarsi Pietà. 

Su queste montagne il nostro conte teneva una mandria di cavalli. Così un giorno propose alla moglie:«Uto che némo a visitar le me màndrie su’n montagna? ». Con carrozza e cocchiere si fece portare con la moglie vicino alla montagna, fin dove arrivare a quei tempi con una carrozza. Proseguirono quindi a piedi. L’intension l'era coéla de butarla zo en te la Spluga de la Preta». Per cui le disse: «Adesso, Adele, te fasso védar en buso. Vieni, vieni ». Quando furono sull'orlo della grande voragine ad imbuto «el gà dato en spinton e 'll'à butà zo». Non so a quanti metri di profondità - racconta Benetti -, ma c'è una sporgenza. Ebbene a quella la povera sposa si aggrappò ed ebbe miracolosamente salva la vita. 

Il fratello di Adele sapeva tuttavia, attraverso quel suo amico vicino di casa servo del conte che lo stesso, il conte, avrebbe portato sua moglie in mon­tagna per una gita di «piacere ». Così lo precedette, nascondendosi nei dintorni della Spluga, dove a quei tempi il terreno non doveva essere così spoglio di vegetazione boschiva.Nel «Coalo de la Signàpola », nel racconto del Benetti, c'era un cunicolo che andava a finire nella Preta, in tempi successivi ostruito da una frana. Dal «Coalo de la Signàpola », attraverso questo condotto, raggiunse la sorella e, pian piano, la portò nella grotta che, da questo momento, chiameremo del Ciabattino dal mestiere che faceva il fratello «de la Dele ». 

Il conte, credendo di essersi finalmente sbarazzato della moglie gettandola nella Spluga della Preta, diede una sua versione della scomparsa. Simulando spavento e grande dolore, scese giù a Fosse e Sant' Anna e raccontò agli abitanti sbigottiti che un orso, su in montagna, gli aveva portato via la moglie. 

Mandriani, malghesi, gente delle contrade sotto il Corno d'Aquilio si organizzarono per dar la cac­cia all'orso assassino. Le montagne furono battute palmo a palmo, ogni antro od anfratto fu esplorato, ma dell'orso e della moglie del conte nemmeno l'ombra. Le ricerche continuarono per mesi fino a quando, un giorno, in un cespuglio, venne trovato uno sche­letro. I miseri resti potevano appartenere alla povera signora. In realtà, come si venne a sapere in seguito, erano di una pecora a cui mancavano testa e gambe fatte sparire, sembra, da alcuni prezzolati dal conte a cui interessava far credere che erano i resti di quella che era sua moglie. Sta di fatto che a quelle ossa, pietosamente raccolte, venne data sepoltura nel camposanto di Sant' Anna che, allora, si trovava a fianco del cam­panile addossato alla chiesa parrocchiale e dove, ora, giocano spensierati i bambini dell' asi­lo.

Il parroco del tempo sapeva che la signora era ancora viva, « ma l'ha sempre tasu» in quanto era al corrente della «potenza» del conte, per cui aveva paura di parlare. «Érelo on don Abondio anca coél là?! », si chiede il buon e simpatico Gioacchino sot­tolineando l'espressione con un gesto di sdegno. Intanto la donna che era rimasta incinta del conte, uxoricida mancato, al termine della gravi­danza, in condizioni che si possono facilmente immaginare, partorì un vispo bambino. Il fratello ciabattino, per un debito di ricono­scenza verso il Padreterno che gli aveva salvato la sorella e dato un nipotino, promise a se stesso di rimanere sempre con loro nella cavità, tagliando i ponti con il resto del mondo, salvo le visite fuori «casa» indispensabili per mantenere la famiglia aumentata per la nascita dell' erede. A quei tempi alcuni mestieri venivano esercitati a domicilio o, in alternativa, i presta tori passavano dalle famiglie a prelevare arnesi ed attrezzi da riparare che riportavano, dietro compenso in viveri o danaro, a lavoro eseguito. Il calzolaio, fratello di Adele e zio del bambino, pensò di sfruttare la situazione senza dare molto nell' occhio. 

Dopo essersi procurato il necessario, il ciabat­tino, oltre che aggiustare scarpe nella grotta, cominciò a fabbricarne di nuove che vendeva nei paesi sottostanti, soprattutto della Lessiniaocciden­tale. «Erano così ben fatte e così forti e resistenti che la gente andava a gara a comperarle» precisa Gioacchino. E intanto la sorella e il di lei figlio, che diventava grande, erano sempre nella caverna vivendo come degli eremiti, mentre il calzolaio, «col dèrlo el faséa du, tri giri al mese» per i paesi a vendere scarpe e a consegnare quelle riparate ed a comprare, col rica­vato, generi alimentari e qualcosa da coprirsi. Lo chiamavano «el scarpolìn mùtolo », perchè parlava poco per paura di svelare il segreto. Solo il parroco di Sant'Anna, Don Benedetti, sapeva di questa trama. 

Ora scorrendo l'elenco dei Rettori o Parroci che ebbero cura di anime in questa comunità montana a partire dal 1404, troviamo tre sacerdoti col cognome Benedetti: Don Paolo, che fu parroco dal 1702 al 1722; Don Matteo, parroco dal 1814 al 1826 e Don Giuseppe, dal 1908 al 1942. Se escludiamo il parrocchiato di Don Giuseppe, nativo di Ceredo, perchè troppo vicino al nostro tempo, non resta che collocare i fatti come accaduti nei primi decenni del 1700 o del 1800. 

Ma tornando al racconto del Benetti, pochi col tempo credettero a «la storia de l'orso» e così «è 'na fora le ciàcole che 'l conte l'éa copà la moglie, e cossì la marchesina l'ha gà oltà le spale» (non volle più saperne). Logicamente ci rimase molto male e fu preso da grande avvilimento e da profondo scon­forto. Deciso a cambiar vita, si arruolò volontario nell' esercito. 

Era successo che nella montagna chiamata Preta era stata smarrita una « bestia» (una manza). I mal­ghesi si misero a cercarla in ogni dove, ma «no jéra boni de catarla », finché non entrarono in un vajo impraticabile dove scorsero una donna, mal in arnese, scappare con un bambino. Dopo qualche giorno, nei paesi vicini (Sant' Anna, Fosse, Erbezzo, Cesanova) tutti sapevano del «Coal », della donna col bambino e del ciabattino; donna e ciabattino che ritenevano tuttavia fossero marito e moglie con il loro figlio. 

Il conte arruolatosi, come si è detto, nell'eserci­to, fu in seguito promosso al grado di capitano. In occasione di strategie militari si trovò, proveniente da Ala (Trento), a dover passare con la truppa dalla Sega di Ala e dal Passo Fittanze (Erbezzo), dove fermò la colonna di uomini e giumenti perché si riposassero. Da qui alla Spluga della Preta la distanza è relativamente breve. Forse il rimorso di aver gettato la moglie nell' abisso, forse la nostalgia delle sue proprietà abbondonate per la vita militare, il conte-capitano decise di fare un salto fino al luogo del delitto. 

Si mosse, con passo deciso, quando le ombre della sera stavano calando sulle contrade e solo le cime più. alte dei Lessini erano ancora illuminate dagli ultimi raggi del sole sempre più bassi sull' oriz­zonte. Arrivò quindi alla Preta che era ormai buio. Non si era accorto di essere stato seguito da un mili­tare della sua compagnia, un soldato che nutriva particolare odio e rancore nei confronti del suo superiore che aveva calcato la mano nel sommini­strare punizioni al subalterno per indisciplina o mancanze che egli riteneva di poco conto. 

Deciso a non lasciarsi sfuggire l'occasione per vendicarsi delle angherie subite, raggiunse, non visto, il suo comandante nei pressi dell'abisso nel momento in cui lo stesso si sporgeva sull'orlo per cercare di capire da dove provenivano delle voci misteriose. Nello stesso istante in cui, nella semi oscurità, al conte parve di scorgere sua moglie, il soldato, armato di fucile, premette il grilletto e nell'a­ria echeggiò uno sparo sinistro. 

Senza rendersi conto se il colpo era andato a segno o meno, se la diede a gambe levate, mentre il conte, ferito mortalmente, mandava dei flebili lamenti che il ciabattino, dal Coalo, udì. Si recò all'imboccatura dell' abisso dove trovò, agonizzante, un uomo che, dalla divisa che portava, a prima vista ritenne trattarsi di un guerriero. Nel quale, però, riconobbe ben presto suo cognato. Corse giù da sua sorella per metterla al corrente, con le dovute cautele, dell'accaduto ed insieme portarono il ferito svenuto nella grotta. Alla meno peggio fasciarono la profonda ferita, dopo averla « medicà con de l' òio ». Dopo qualche ora, il conte, ripresa conoscenza, si trovò a tu per tu con la donna che riteneva di aver ucciso e che, in quel momento, gli sembrava un essere venuto dall' altro mondo. «Non sono uno spirito; sono io, tua moglie in carne ed ossa». «Non è possibile», esclamò il conte, e svenne nuovamente. Si riprese verso mezzogiorno. Intanto il sangue continuava ad uscire dalla ferita per cui era ormai prossimo alla fine. Mentre chiedeva alla moglie come avesse potuto salvarsi ed essere sopravvissuta per tanto tempo in quella grotta, il suo sguardo cadde sul bambino. «E questo chi è? », chiese con un fil di voce. «Questo è tuo figlio; nostro figlio ». «Mio figlio?!» «Presto, presto, voglio carta e penna ». 

Il ciabattino corse giù a Sant' Anna a prendere l'occorrente e per avvertire dell' accaduto il parroco, il quale, a dorso di una mula (bianca, precisa a Benetti), arrivò al «Coal» verso le quattro, le cinque del pomeriggio. Qui il sacerdote ricevette e trascrisse le ultime volontà del conte, il quale era ricco e possedevi molti beni che lasciò tutti al figlio. 

Appena redatto e sottoscritto il testamento esalò l’ultimo respiro non prima di essersi pentito delle proprie colpe. 

Il bambino intanto cresceva e, divenuto grande, in città ad occupare la dimora che era stata del padre mentre la madre e lo zio che, come sap­piamo avevano fatto voto di restare sempre in grotta, rimasero lì. 

Il nostro informatore non fornisce notizie circa la sorte del ciabattino, ma riferisce invece che Adele, sua sorella, morì nel «Coalo» e le spoglie furono portate a Sant'Anna per essere sepolte in un angolo del cimitero a fianco del campanile. Dopo molti anni dalla morte della sventurata Adele, vennero dissepolti i resti per far posto ad un nuovo inqui­lino. Ma il becchino, con sua grande sorpresa, non trovò, come succede normalmente, un mucchio di ossa, ma bensì il corpo ancora intatto ed il cuscino di foglie che erano state messe sotto il capo, ancora verdi. Si gridò subito al miracolo e per le contrade si sparse la voce che la povera donna era sicura­mente una santa. Il parroco del tempo pregò la sua gente di met­tere tutto a tacere perché intentare una causa per portarla sugli altari si andava incontro a molte spese ed occorrevano tanti soldi e «soldi non ghé n'era e così l'Adele no jà podù farla santa ». 

Qui termina il racconto di Gioacchino Benetti, al quale chie­diamo sinceramente venia per non averlo saputo fis­sare sulla carta stampata mentre Lui era ancora vivo. Ora indagando tra la gente, soprattutto di Fosse e contrade limitrofe, abbiamo trovato dei precisi riscontri, anche se frammentari rispetto ai fatti qui descritti, sulla presenza in tempi lontani di un ciabattino eremita che era vissuto nella grotta omonima vendendo scarpe a domicilio. Grotta, per la verità, alquanto inospitale, essendo di tipo freddo a causa dell' ingresso in discesa, quasi un frigorifero naturale. Nel suo interno si può verificare il fenomeno delle «fumate» (formazioni di nubi sottili) per condensazione del vapore acqueo, quando l'umidità relativa raggiunge il punto di saturazione. Nel periodo invernale, ma anche in primavera inoltrata, si possono osservare, nei punti di stillicidio, la formazione di stupende stalattiti e soprattutto stalagmiti di ghiaccio che, alle volte, si congiungono formando grandi colonne arabescate. 

Bibliografia: tratto da La Lessinia ieri oggi domani quaderno culturale 1990 La grafica editrice


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